Il 10 febbraio 1986, 35 anni fa, è un lunedì che sia la città di Palermo, sia tutta Italia non dimenticherà mai. In quella data, all’annuncio de “La corte!”, iniziò il Maxiprocesso alla mafia. Per l’occasione venne costruita un’aula bunker all’interno del carcere dell’Ucciardone.
Quella mattina si presentarono in aula 475 imputati, alla sbarra per la prima volta. Le inchieste di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino avevano elaborato un nuovo, vincente, metodo investigativo riuscendo a dimostrare l’esistenza di una “cupola” che governava la mafia e condivideva la responsabilità di tutti i crimini commessi. Decisivi per inchiodare i capi mafia furono i “pentiti”, in particolare Tommaso Buscetta che descrisse la struttura della mafia siciliana.
Quel processo fu una vittoria per lo Stato che, dopo 22 mesi di dibattimenti, emise centinaia di sentenze di colpevolezza. Condanne eccellenti colpirono Michele Greco, Pippo Calò, Luciano Liggio e anche Bernardo Provenzano e Totò Riina che allora erano latitanti.
Condurre il processo non fu affatto facile, furono molti i giudici che si ritirarono, però, tra quelli che accettarono si ricordano il giudice Alfonso Giordano, che accettò di presiedere la Corte d’Assise, e Pietro Grasso, che successivamente diventerà presidente del Senato.
Fu proprio Pietro Grasso, ricordando quei giorni, ad affermare che “Finalmente il mondo vedeva la mafia dietro le sbarre e avrebbe visto condannati centinaia di mafiosi. L’impegno dello Stato, il sacrificio di tanti uomini, e il lavoro del pool di Falcone e Borsellino trovavano un riconoscimento giudiziario e una consacrazione nella storia”.
Gli attentati a Falcone e a Borsellino nel 1992 non cancellarono i risultati delle loro inchieste, come era nell’intento di chi li ha uccisi, perché dopo i processi con condanne confermate anche in Cassazione, ormai nessuno può più negare l’esistenza della mafia e sottovalutarla.