di Chiara Triolo
Attorno al 23 a.C. l’elegante Orazio componeva le Odi, considerandole orgogliosamente “un monumento più duraturo del bronzo”. Il valore della sua arte, di cui era nettamente consapevole, ha trovato conferma nei secoli. Le odi oraziane, infatti, sono tuttora punti di riferimento per la letteratura mondiale. La caducità della vita e del tempo, l’inutilità delle ansie e delle speranze, la ricerca della quiete nel riparo degli affetti, la necessità di conquistarsi la serenità dell’autàrkeia e una aurea mediocritas (in greco metriotes) sono i cardini d’espressione del poeta che in uno scenario invernale di tempesta riesce a rappresentare la metafora dell’eterna lotta della vita (immagine molto frequente nelle sue odi).
Per questo ci invita ad apprezzare ogni momento con il suo “Carpe diem”. Tradotto comunemente con “cogli l’attimo”, quasi a sintetizzare il significato intrinseco dell’ode, questo motto accompagna l’umanità sin dai suoi tempi cone un concetto sempre attuale, ripreso più volte nel corso dei secoli dalla letteratura, dalla filosofia, dalla musica e dall’arte.
Quante volte ci si ritrova “anestetizzati” quando ci si cala nella riflessione di quella che realmente è la fugacità del tempo? Cos’è il tempo? Cos’è la vita? Probabilmente, ci lascia intendere Orazio, è tutto un continuo divenire, un equilibrio dei tempi.
Ormai sono pochi quelli che hanno il coraggio di affrontare i limiti, superare le barriere e contemplare l’essenza, attuando cambiamenti universali, in un mondo così egoistico. Quale momento migliore di adesso? Analizziamoci, espandiamo le nostre conoscenze e i nostri saperi, non lasciamo che il tempo ci domini, poiché esso scorre, vola “e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà”.
Il nostro passato e le azioni che abbiamo compiuto nel tempo, influenzano il presente e non lasciano in disparte il futuro. Il presente diventa, e nessuno può negarlo, passato. Allora perché lamentarsi? Perché procrastinare?
“Che si colga il giorno, confidando il meno possibile nel domani.”
Ode I, 11
“Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi
finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
temptaris numeros. Ut melius, quidquid erit, pati!
Seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,
quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare
Tyrrhenum, sapias: vina liques et spatio brevi
spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida
aetas: carpe diem, quam minimum credula postero”
Traduzione
Tu non chiedere (saperlo non è lecito) quale sorte a me, quale a te
abbiano dato gli dei, o Leucònoe, e non tentare
i calcoli babilonesi. Quanto è meglio subire ciò che sarà,
sia che Giove ci abbia assegnato molti inverni, sia che l’ultimo sia questo
che ora fiacca il mar Tirreno
contro le scogliere! Sii saggia; filtra il vino e limita la lunga speranza
a una breve scadenza. Mentre parliamo, il Tempo invidioso
sarà fuggito. Cogli l’attimo, confidando il meno possibile nel domani.