di Alessia Mauro
“Anche se il timore avrà più argomenti, tu scegli la speranza”, questo è l’invito di Seneca. Riflettere su questa breve frase, ma con un significato cosmico, vale a dire essere richiamati dalla coscienza, che ci urla un imperativo al quale non possiamo non obbedire. Risulta necessario ricordare, a chiare lettere, quello che è il forse più famoso mito che la cultura classica ci suggerisce, sin dai suoi maestosi esordi: quello del vaso di Pandora, il mito che appare nelle linee 560-612 dell’opera di Esiodo, la “Teogonia”. Pleonastico sarebbe soffermarsi e raccontare per intero lo svolgersi del fatterello in sé (interessante al più come aneddoto o curiosità), prolifico, invece, focalizzare l’attenzione sulla dottrina che è necessario cogliere. La creazione di questa donna si deve ricondurre all’ira di Zeus che ordinò un male per gli uomini, mossa risultante da una disputa con Prometeo, il quale aveva rubato il fuoco agli dei per donarlo ai mortali. Forgiato di tutto ciò che di positivo potesse esistere, il dio del cielo e del tuono le recapitò un vaso, con la suprema raccomandazione di non aprirlo. Pandora, avvolta da quel senso irrepugnabile di curiosità “levò di sua mano il grande coperchio dell’orcio disperdendo così tutti i mali, preparando agli uomini affanni luttuosi. Soltanto la Speranza là, nell’intatta casa, rimase sotto i labbri dell’orcio, secondo il volere dell’elegiaco Zeus”. Il fatto che la “Eva” greca abbia rinchiuso la speranza nel vaso, sarebbe la ragione per cui tra la gente si trova ancora la speranza di riottenere tutte quelle cose buone che ci hanno abbandonato ed ecco come tale mito emerge da protagonista nella vita dei molti. Tra questi “molti” appare la figura di Seneca, il quale è proprio nelle “Epistulae morales ad Lucilium” che proferisce tutto il suo elogio verso la speranza, da interpretare come uno spazio in cui potersi rifugiare e in cui confidare, mentre al di fuori di esso c’è la presenza di negatività che attanaglia e spaventa. Dietro al “tu” generico delle sue lettere, Seneca dà luogo a un impianto dialogico che le modella come una conversazione aperta e ininterrotta con il proprio interlocutore (o con il proprio lettore), con l’obiettivo del comune perfezionamento morale. Non è, quindi, da intendersi come inerzia fine a se stessa, bensì come personale ricerca del bene e della libertà interiore che rappresenta il fine ultimo del saggio stoico. Nonostante l’ambiguità della constatazione, la felicità e il dolore vanno sempre insieme, come il sole e la luna o l’amore e l’odio. Odiamo ciò che amiamo, amiamo ciò che odiamo, così c’è sempre un po’ di tristezza nella felicità e un po’ di felicità nella tristezza; quello che facciamo spesso, però, è quello di far emergere una sola delle due cose, anestetizzando l’altra e ciò non è produttivo, perché bisogna lasciare che le sensazioni fluiscano, come un fiume e, di questo, non si deve aver paura.
Non bisogna avere mai paura; tutto, in fondo, è una questione di prospettiva.
Nella vita non sempre si ottiene quel che si vuole, però, la forza e l’intelligenza non consistono tanto nell’ottenere i desiderata, ma soprattutto nell’adattarsi e nell’imparare a essere felici con ciò che già si possiede; occorre solo imparare a guardare la realtà con occhi diversi, usare delle “lenti a contatto colorate”.
Danzare, ecco… si deve danzare e non smettere mai di farlo; non opporsi alla tempesta, ma ballare con il vento e farsi bagnare dalla pioggia; non andare sempre contro la corrente, ma lasciarsi trasportare da essa e lasciare che le cose accadano, senza temere, attendere, fiduciosi, confortati dalla speranza “sogno di chi veglia” (Carlo Dossi).