di Chiara Triolo
La felicità è un tema assai caro alla letteratura di tutti i tempi, basti citare autori come Alessandro D’Avenia, Lorenzo Marone, Herman Hesse con il suo capolavoro “Siddharta”, o molto più indietro nel tempo Lucio Anneo Seneca, filosofo stoico rinomato per due motivi principali: essere stato il precettore di Nerone e aver posto fine alla sua vita con un suicidio altrettanto lento e struggente.
Nel “De Vita Beata”, Seneca si occupa di affrontare l’argomento “felicità”. Egli afferma anzitutto che questa sia una prerogativa di chi vive secondo ragione e non secondo corrente, di chi si tiene lontano dalla moltitudine e non si confonde con le pecore del gregge, che vanno dove vanno tutti e non dove dovrebbero andare, accordandosi con la propria natura. Felici, quindi, sono le persone rette e razionali, con una mente sana e un giudizio sincero, poiché “non si può definire felice chi si trova fuori dalla verità”. Felici sono coloro che riescono ad accontentarsi e godere della propria condizione, senza ricercare piaceri o allettamenti. Questi ultimi, scrive Seneca, “sono fragili e di breve durata”, s’infiacchiscono già al loro primo slancio e poiché “hanno uno spazio ristretto, ben presto ci saziano e ci danno nausea”. Una mente forte ed energica può essere felice, così ritiene Seneca e così si potrebbe evincere anche dal nuovo concetto di salute dell’OMS. D’altronde come biasimare chi è felice poiché in completo benessere fisico, psichico e sociale?
Ad ogni modo un intelletto sempre sano deve essere anche paziente, “capace di salvare qualsiasi situazione, interessata al corpo e a quanto lo riguarda ma senza ansie e preoccupazioni, amante di tutto ciò che adorna la vita ma con distacco, disposto a servirsi dei doni della fortuna ma senza farsene schiavo”, quindi abile in qualsiasi circostanza senza ostentazione: questo è sintomo di armonia interiore, che equivale alla felicità.
Da qui potrebbe derivare la separazione tra piacere e virtù: mentre lo stolto tratta le ricchezze come padrone e difficilmente riesce a gestire le fatiche, i pericoli, la povertà e tutte le minacce che si affollano e strepitano intorno alla vita umana; il sapiente, che è uomo virtuoso, le tratta come schiave, le sfrutta ma non ne fa un vanto, né se ne cura in caso venissero a mancare; pertanto ha una mente volta alle cose che lo circondano, consapevole e padrona di queste e di sé stessa. A questo punto si direbbe che la felicità non è solo di chi sia esente dalle fortune, ma di chi sia in grado di governarle, donando senza sperperare e conservando senza nascondere.
Seneca era uno stoico e, naturalmente, tentava di confutare la filosofia epicurea. Tuttavia, in questo caso, diede le colpe a chi, approfittandosene, cercava la giustificazione alle proprie passioni sfrenate in essa, che, però, dice Seneca, non intendeva spingerli alla lussuria e al vizio.
Non ci resta che concludere che, per quanto la vita sia costituita da continue scalate, “il piacere è solo un’aggiunta e non la meta del nostro sforzo”.